Longhi al giovedì – La sacralità dell’allenatore vincente

In questo editoriale non saranno scritti nomi, ogni riferimento sarà puramente casuale, verranno sviluppati dei concetti e delle considerazioni sulla figura dell’allenatore, soprattutto quello definito vincente. In effetti, ci sono dei tecnici che hanno vinto ovunque abbiano lavorato, che hanno arricchito il proprio curriculum fino a renderlo una miniera d’oro, uno scrigno invidiabile, una bacheca degna di rispetto. Personalità dall’indiscutibile valore morale, che hanno costruito le loro fortune gestendo gruppi di campioni con autorevolezza e soprattutto calma, quella tipica dei forti, con la quale si padroneggiano le emozioni, si stemperano le tensioni e si addomesticano le pressioni. Si può essere considerati tra i tecnici migliori al mondo, dotati di una leadership carismatica, innata e riconosciuta, ma ciò non significa ammantarsi di un’aura di sacralità, come se i successi ottenuti in carriera creassero una sorta di immunità alle critiche e attirassero solo forme di idolatria. Un allenatore vincente, ad un certo punto della sua brillante carriera grondante successi in ogni dove, può decidere di accettare una sfida diversa dalle altre, ponendosi al timone di una squadra di grandi valori tecnici ma priva della mentalità vincente. Si pensa che serva proprio un allenatore con quel ricco bagaglio per acquistare finalmente quella mentalità tanto agognata, magari foriera di un ciclo indimenticabile. Invece, può succedere che le cose si rivelino più difficili del previsto, che non si riesca a dare una impronta alla squadra né tantomeno la parvenza di un gioco, che molti giocatori si sentano spaesati in ruoli poco congeniali alle loro attitudini, che tra una partita e l’altra si stravolga sempre l’undici titolare non favorendo una amalgama.
Si potrà dire che ci sia bisogno di tempo per cambiare la mentalità, ma se tutto questo si verifica anche dopo l’anno di transizione (forse in pochi sapevano che alcuni allenatori godessero di un tale credito lautamente pagato), pare evidente che qualcosa non vada nel verso giusto. Una squadra che voglia puntare al vertice del proprio campionato, non potrà mai andare lontano se contro una big europea gioca al massimo della concentrazione per poi fornire prestazioni indecorose contro avversarie di cabotaggio inferiore. In questi casi, l’esercizio della critica non può restare silente, sarebbe vista come una forma di indifferenza verso una situazione che potrebbe portare ad una stagione negativa. Invece, no! Un allenatore che ha vinto tanto, anche più del club che allena, non può essere criticato, nei suoi confronti ci deve essere solo deferenza se non addirittura genuflessione. Perché bandire la critica? E perché quel tecnico ha vinto ovunque e per i tifosi di quella squadra dovrebbe essere solo un onore averlo in panchina. Che poi si prospetti un altro anno con una competitività annacquata e non esaltata, fa niente, ma guai a criticare uno degli allenatori più vincenti del mondo. Logica vorrebbe che crescesse il livello di aspettativa intorno a quella squadra alla cui guida si insedia un allenatore vincente, il quale allo stesso tempo deve essere consapevole che un fallimento non troverebbe giustificazioni. Qualcuno, evidentemente, non ha ancora capito che, un allenatore vincente, proprio perché dovrebbe essere un valore aggiunto, è maggiormente esposto alla critica, che non significa accanimento o lesa maestà, bensì la volontà di guardare ai fatti con gli occhi dell’obiettività. Quando un allenatore dichiara di puntare in alto e si professa soddisfatto di ciò che la società gli ha messo a disposizione per lavorare, allora deve portare risultati per non essere ricordato come una delle delusioni più grandi.

A cura di Maurizio Longhi