STRUTTURE- L’altro grande problema del calcio italiano è la totale mancanza di strutture. Gli stadi dei club italiani, oltre a non essere di proprietà (a parte lo Juventus Stadium), sono di una arretratezza imbarazzante per un campionato della massima serie. Alcuni stadi non hanno i tabelloni, altri hanno interi settori transennati da tempo. Insomma, è una situazione insostenibile. Non avere impianti propri, in grado di lavorare sette giorni su sette e rifocillare le casse dei club, vincola le società italiane a trovarsi spesso con l’acqua alla gola e ricorrere alle cessioni per acquistare giocatori. Serve una legge in grado di velocizzare l’iter di costruzione di uno stadio. Molto spesso si accusano le società di serie A di praticare l’autofinanziamento; di per sé non è una cosa negativa, anzi. Ma una cosa è fare l’autofinanziamento con entrate che superano i quattrocento milioni, come nel caso di Real Madrid e Barcellona; una cosa è farlo con meno di centocinquanta, come nel caso dei club italiani. È per questo che i nuovi investitori – Pallotta e Thoir ad esempio – puntano a grandi partnership e allo sviluppo del marchio. Questo lavoro non produrrà sviluppi e miglioramenti nel breve termine, ma nel medio-lungo termine questo è un processo in grado di produrre molti benefici.
VIVAI- Altra grande cosa da modificare nel più breve tempo possibile è la concezione dei vivai. Ad oggi in Italia, le squadre primavera servono a poco. Anzi, oserei dire a niente. Nelle giovanili vengono rilegati giovani fino ai venti anni. Poi, da un giorno all’altro, si prendono questi giovani e si chiede loro di fare la differenza a grandi livelli: impossibile. La differenza che c’è tra le squadre primavera e anche solo la serie B, è abissale. Non si può chiedere ad un ventenne che fino al giorno prima giocava solo ed esclusivamente con coetanei, di scendere in campo e far la differenza a grandi livelli. I diciottenni o i diciannovenni, vanno inseriti in un contesto di gioco. In uno scacchiere tattico ben definito, dove al giovane talento di turno viene detto esattamente cosa deve fare. Come se ad un giovane musicista di talento, non venisse dato lo spartito. Lui sarà pure bravissimo, ma senza spartito, sembrerà un pesce fuor d’acqua. Purtroppo, in un calcio sempre più dominato dal pensiero: “Stiamo dietro poi palla lunga e pedalare”, non c’è spazio per loro. Infatti, negli ultimi anni abbiamo perso diversi giovani, alcuni poi fortunatamente sono tornati. Un esempio lampante di società che ha sempre lasciato andare via i giovani, è l’Inter. Negli ultimi anni la mole di talenti prodotta dal settore giovanile nerazzurro è impressionante, ma è altrettanto impressionante la quantità di giovani che si è lasciata sfuggire. Va detta però un’altra cosa, quando un talento ha un cognome italiano si fa fatica a dargli fiducia. I motivi non sono chiari, forse perché il suo nome non finisce in “inho” o chissà per quale altro motivo. Fatto sta che quando si può puntare su un ventenne italiano, si finisce per venderlo e dar fiducia ad suo coetaneo straniero. Ho trovato diverse risposte al perché si fa questo, ma nessuna è risolutiva. So solo che la Juventus non ha puntato per pochi spicci su Immobile e Berardi ed è andata a prendere Morata per oltre venti milioni. Dobbiamo cambiare mentalità, questo è certo, ma dobbiamo farlo tutti: addetti ai lavori, Presidenti, direttori sportivi, allenatori e anche i tifosi.
A cura di Mirko Emili